[Il presente articolo-recensione, richiesto dall'editore di una nota rivista di studi classici, venne respinto in data 10 luglio 1992 dall'editore medesimo perché troppo lungo, e con l'invito a tagliarlo. L'autore non lo tagliò e l'articolo non fu mai pubblicato. Lo riproponiamo qui nella sua primitiva stesura, dunque non aggiornato, poiché a nostro parere la validità dei contenuti perdura intatta.]



A PROPOSITO D'ASTROLOGIA GRECA FRA COMMENTATORI E TRADUTTORI.


La recente traduzione commentata del primo libro del quadripartitum a cura di G. Bezza[1] offre lo spunto e lo stimolo per alcune osservazioni. Con essa, ancorché incompleta, sono tre le traduzioni dell'opera tolemaica apparse in questi ultimi anni.[2] Volendone offrire, ricorrendo alla metafora, un'immagine flash, paragoneremmo la prima ad una prostituta avvenente ma inaffidabile; la seconda ad una volonterosa casalinga, dotata sì di senso pratico, epperò – sia pur ingenuamente – tanto presuntuosa da credere di poter risolvere tutto con strofinaccio e spazzolone; la terza, cui dedicheremo sotto più spazio, a una zitella inacidita che ancora cova il sogno di un principe azzurro che le faccia provare forti emozioni.[3]
Lo studio dei testi d'argomento non letterario (dalla musica all'architettura, dalla medicina all'astronomia, dall'agricoltura alla meccanica) richiede, oltre alla preparazione filologica – che costituisce la base comune –, una specifica competenza nella materia scelta quale oggetto dei propri interessi: l'una guida l'altra, ed entrambe conducono alla meta. Nondimeno, in taluni casi non basta. Mancano l'umiltà e l'interesse che in pratica finiscono per rappresentare una cosa sola, la passione. È così che, per capire il funzionamento d'un marchingegno, lo si deve riprodurre, e le difficoltà che le iniziali conoscenze linguistiche e tecniche specifiche non consentono di superare, saranno vinte dalla passione. Va da sé che, se l'affrontare i testi non letterari dell'antichità è pregiudicato dalla convinzione che gli antichi fossero assennati e logici in ciò che comprendiamo, ma ad un tempo sprovveduti o creduloni in ciò che non afferriamo, ogni tentativo di riportare alla luce del nostro intelletto le loro conoscenze non potrà che risolversi in una sequela di parrebbe, sembra, taluni affermano, il testo pare corrotto o lacunoso, a quei tempi si riteneva che, oppure, peggio ancora, nel tacere le difficoltà banalizzando i contenuti. Un buon esempio di preparazione linguistica, competenza specifica e vera passione, è dato dall'edizione ippocratica di É. Littré, senza la quale chi si avventurasse nel corpus annasperebbe (è quel che accade per Galeno), né sarebbe stato possibile compilare l'utilissimo Index.[4]
Lo stesso vale per l'astrologia: se non v'è passione, ossia l'umile desiderio di ripetere i gesti, di imparare ad orientarsi nel cielo notturno, di disegnare uno zodiaco fino ad impratichirsi della tecnica necessaria per erigere un oroscopo ed interpretarlo, lo studioso è destinato a fallire. Fino alla pubblicazione del commento tolemaico del Bezza, non si aveva a disposizione nulla che avviasse correttamente sulla strada della comprensione di quell'astrologia che meglio definiremmo naturale. Qualche sussidio, anche eccellente, sì - come ad es. l'insostituibile Catalogus codicum astrologorum Graecorum -, ma di studi, sintesi, utili contributi, nessuna traccia (il lettore non tema: non ci siamo scordati del “fondamentale” Bouché-Leclercq, non privo peraltro, qua e là, di talune osservazioni interessanti, eppure inutili e comunque insufficienti ad una reale conoscenza della materia).
A titolo esemplificativo dell'approccio per così dire tradizionale degli studiosi muniti di un più o meno attendibile pedigree, prenderemo in esame, tenuto conto della legittima attesa del Lettore quanto a chiarezza e semplicità, il capitolo 56° della Περσικὴ σύνταξις ἀστρονομίας compilata da Gregorio Chioniades (fine sec. XIII) sulla base del riadattamento persiano di un originale arabo di Abd al-Karim al-Shirwani al-Fahhad secondo l'edizione corredata da introduzione, traduzione inglese e commento computistico di uno dei maggiori studiosi del nostro tempo di matematica e astrologia antiche: David Pingree.[5] Il capitoletto tratta περὶ τῆς κινήσεως τοῦ χρόνου καὶ τοῦ μηνός. Espostovi il principio generale (che cioè il procedere del ταλέ [traslitterazione dell'arabo tali' = ascendente] principia dal luogo zodiacale di nascita e prosegue in ragione di un segno per ogni anno fino al raggiungimento del luogo zodiacale corrispondente all'anno, al mese e al giorno per cui si effettua l'indagine), passa ad un esempio di calcolo che, per maggior chiarezza, riproduciamo per intero.

Ὁ ψῆφος.
Ἐτέθη ταλὲ τόσον· γ κη ιβ, ὁ παρελθὼν χρόνος τόσος· μβ. ἠριθμήθησαν ἐξ ἀρχῆς οἰ χρόνοι ἀπὸ τοῦ γ´, καὶ κατήντησεν ὁ ψῆφος εἰς τὰ η, ἀνὰ ᾱ χρόνον ἑκάστου ζῳδίου λογιζομένου καὶ ἀριθμουμένου. ἐπεὶ οὖν δέκατος ἦν μὴν καὶ ἡμέρα ια´, ἐγένετο εἰσέλευσις εἰς τὰ κανόνια τῆς κινήσεως. κατ’ἐναντίον οὖν τοῦ ι´ μηνὸς ἐκρατήθη ψῆφος ὅδε· 0 κδ λθ, ῑ κ μ, καὶ κατ’ἐναντίον τῶν ἡμερῶν 0 0 νδ, 0 ια μδ. ταῦτα ἡνώθησαν, καὶ ἐξῆλθον 0 κε λγ, ια β δ. εἶτα ἡνώθησαν ταῦτα τῷ ταλὲ η κη ιβ ἰδίᾳ – ἕκαστον τῶν κανονίων. τὸ 0 κε λγ μετὰ τοῦ η κη ιβ, καὶ ἐγένετο τόσον· θ κγ με· καὶ τοῦτό ἐστιν ὅριον τοῦ Κρόνου. καὶ αὖθις τὰ ια β δ ἡνώθησαν τοῖς η κη ιβ, καὶ ἐξῆλθον ζ 0 ις· τοῦτο δ'ἐστὶν ὅριον τοῦ Ἄρεως. καὶ τὸ τοῦ Κρόνου οὖν ἦν τοῦ χρόνου, τὸ τοῦ Ἄρεως δὲ τοῦ μηνός.

[Nota. Nell'edizione del Pingree le lettere singole o in coppia indicanti numeri, ove non abbiano l'apice, sono sovrastate da una lineetta, mentre il simbolo indicante lo zero è un segno simile al simbolo astrologico del Capricorno.]

[Esempio di] calcolo.
[Supponiamo che] l'ascendente [di nascita] sia posto a 3s[egni] 28° 12' e che sia passato il 42esimo anno [di età]. Contando gli anni a partire dal terzo segno ed attribuendo ad ogni segno 1 anno, giungeremo all'ottavo segno. E [supponendo ancora che dell'anno in questione] siano trascorsi 10 mesi e 11 giorni, consulteremo le tavole del moto [di profezione]. [Rileveremo allora che] a 10 mesi corrispondono 0s 24° 39' / 10s 20° 40', a 11 giorni 0s 0° 54' / 0s 11° 44'. Ora, sommando [tra loro] i dati rilevati, otterremo 0s 25° 33' / 11s 2° 4'. Quindi, addizionando separatamente questi due risultati all'ascendente [del 42esimo anno, che era giunto] a 8s 28° 12', troveremo il nuovo ascendente [per il momento stabilito]: 0s 25° 33' + 8s 28° 12' darà 9s 23° 45' (termini di Saturno), mentre 11s 2° 4' + 8s 28° 12' darà 7s 0° 16' (termini di Marte). Il moto [di profezione] annuale cadrà dunque nel termini di Saturno, mentre il moto [di profezione] mensile in quelli di Marte.
[6]


E passiamo al commento (pp. 372-373). La prima cosa che lascia perplessi è il titoletto preposto «On the lords of the year and of the month». In realtà i signori dell'anno e del mese non c'entrano affatto: il Chioniades rileva semplicemente quali siano i signori dei termini nei quali vanno a cadere i due ascendenti secondo il moto che si vuole illustrato nel capitoletto; del resto, essendo i trenta gradi di ciascun segno zodiacale spartiti fra tutti e cinque i pianeti, come si potrà mai parlare di signore dell'anno o del mese, se questi nel corso di uno stesso anno, o di uno stesso mese, cambiano cinque volte?! Ma procediamo. Il testo presenta una prima difficoltà di calcolo di cui il Pingree sembra non avvedersi: se l'ipotetico Tizio dell'esempio ha già compiuto 42 anni, cui toglieremo tante volte 12 (l'intero zodiaco) quante è possibile, avremo un resto di 6 (segni, 42 - 36 = 6), vale a dire che il moto dell'ascendente giungerà all'opposizione del ταλέ di nascita (6 x 30° = 180°). Ora, il testo stabilito dal Pingree dice che dal terzo segno si giungerà all'ottavo, il che non può essere (8 - 3 = 5, non 6) data l'ipotesi esemplificativa dell'avvenuto compimento del 42esimo anno di età. L'editore supera la difficoltà col togliere una unità alla somma di 3 + 42, senza neppure considerare che l'ascendente di nascita, trovandosi a 3s 28° 12', cade in realtà nel quarto segno e, pertanto, non v'è da togliere alcuna unità.[7]
Entrando nel vivo, l'editore afferma che «the tables do not survive, but it is easy to see how they were computed»; quindi rintraccia i 24° 39' del testo greco attraverso un procedimento piuttosto… oscuro laddove una semplice proporzione sarebbe risultata assai più chiara: come 365 giorni stanno a 30°, così 300 giorni stanno a x, il cui risultato è appunto 24° 39'. Tuttavia il Chioniades a questo dato ne abbina un secondo, che sembra gettare nello sconforto, celato dallo spocchio, l'editore. Per spiegare quel 10 20 40 (ch'egli, ahinoi, intende come 10 mesi e 20,40 giorni) accanto ai 24° 39' già illustrati, afferma che «there are 300 days in 10 months; these are to be converted into solar days by division by the mean daily motion of the Sun, 0;59,8°/d»; ma i conti non tornano e dunque, secondo lui, «the text seems [il Lettore ricordi quanto detto più sopra!] to have used 0;56,8°; for 5,0: 0;56,8°/d = 5,20;40d = 10m 20;40d». In altre parole il Pingree dà dell'incompetente al Chioniades per aver utilizzato un passo solare medio giornaliero pari a 0° 56,8'. Ma l'astronomo bizantino, benché dilettante, non era un cretino. Infatti, la ragione di quel 10 20 40 è tutt'altra. Il moto illustrato in questo capitoletto - lo abbiamo già rilevato - è il moto di profezione dell'ascendente; il quale moto, secondo quell'artistica capacità degli antichi - perduta dall'uomo moderno - di applicare il principio dell'analogia, ricalcando il rapporto tra Sole e Luna (nessuno ignora che tra un novilunio e l'altro, mentre il Sole si sposta di 30° circa, la Luna percorre l'intero zodiaco più un segno circa), si sdoppia in due: mentre il ταλέ annuale (Sole) avanza di 30°, quello mensile (Luna) percorrerà l'intero zodiaco (= 360°) più i 30° percorsi nel frattempo dal ταλέ annuale, sì da ritrovarsi nello stesso luogo zodiacale là dove un nuovo anno profezionale comincia. Risolveremo quindi le perplessità del Pingree ancora con una semplice proporzione: 365 giorni stanno a 390° (= 360° + 30°) come i giorni dati stanno a x; troveremo così che 300 giorni corrispondono a 10s 20° 33' (10s 20° 40' del testo), 11 giorni a 11° 45' (11° 44' del testo). Ma il Pingree non pare ancora soddisfatto. Dopo aver presunto ai danni del Chioniades lo sproposito appena riferito, rimprovera (al testo?) di non saper fare le addizioni: «As if this were not bad enough, 10m 20;40° + 11,44d equal 11m 2;24d rather than the text's 11m 2,4», senza accorgersi poco dopo che 11s 2° 4' + 8s 28° 12' non possono dare 7s 0° 16', il quale risultato non tiene conto del riporto di 1 segno: infatti 28° + 2° completano sì un segno (= 30°), ma questo va poi riportato nella colonna dei segni, ossia 11s + 8s + 1s (che riportavamo) = 20, e 20 - 12 = 8, non 7. Tutto ciò, paziente Lettore, non è il frutto di un principiante, ma è il prodotto delle attenzioni di uno dei più noti e paludati studiosi di astrologia antica, il quale ha alle sue spalle edizioni in greco, sanscrito, arabo e latino; se poi si aggiunge che il commento non è un semplice commento, bensì un computational commentary, il quadro è completo.
Siffatto modo di editare gli scritti d'argomento non letterario dell'antichità trova spazio e consensi solo in virtù di un dato che si dà per iscontato: la certa e rassicurante incompetenza del fruitore. A giustificare la propria, invece, s'invoca sempre più spesso una risibile e falsa riverenza “storica” che maschera di fatto una rinuncia.[8] Ci domandiamo, a questo punto, a che cosa servano le edizioni cosiddette critiche. Perché darsi tanta pena? Rispondere a tali domande significherebbe varcare i limiti imposti da questa sede.
Ragioni diverse da quelle dichiarate deve avere avuto anche Simonetta Feraboli nel redigere le sue «precisazioni»[9] ad alcune nostre precedenti note al suo Tolomeo,[10] dacché esse per forma e contenuto non ubbidiscono certo ad una qualche deontologia. A parte l'ingenuità del presunto «molto tempo» dedicatole[11] ed il vile tentativo di vanificare, se possibile, o almeno inficiare le nostre argomentazioni accusandoci d'aver preferito l'anonimato,[12] la nostra precisatrice tocca il fondo, raggiungendo il colmo - o viceversa -, laddove afferma, a proposito di tetr. 3,12,2 che «il pianeta ἀνατολικός sarà quindi il pianeta orientale, ossia in transito orientale (non “occidentale” come vuol leggere G. Bezza nella traduzione di tutto il capitolo)». Orbene, il Bezza a p. 226, secondo capoverso, osserva: «Non bisogna confondere il pianeta ἀνατολικός con il pianeta che sorge all'orizzonte, δυτικός con il pianeta che tramonta all'orizzonte… nel capitolo sul temperamento e la forma del corpo i pianeti ἀνατολικοί sono intesi dalla Feraboli come quelli “in transito sull'orizzonte occidentale” (pp. 241s.)». Qui il recensore cita la traduzione dell'editrice, non ne propone una sua. È vero piuttosto che il Bezza – un farraginoso, sia detto per inciso –, nelle continue ristesure cui venne per amor di chiarezza costretto, invertì i termini: o voleva dire “i pianeti δυτικοί” oppure la citazione feraboliana è quella parallela, ossia «in transito sull'orizzonte orientale». Attaccare il Bezza sui contenuti significa tirarsi la zappa sui piedi, a meno di non avere frecce al proprio arco, che la Feraboli non ha; avesse invece scelto la strada dei cavilli, forse avrebbe potuto fare la sua bella… figura. Che non si sia accorta delle molte imprecisioni in cui il suo recensore è incorso, è già di per sé sintomatico, né abbisogna di ulteriori commenti. Quanto all'«ambivalenza» di ἀνατολικός, si noti che un pianeta inferiore può essere ἀνατολικός, ossia “orientale” tra virgolette, pur essendo occidentale rispetto al Sole ed, insieme, occidentale rispetto all'orizzonte; la qual cosa non potrà accadere ad un superiore che sarà sì ἀνατολικός, di nuovo “orientale” tra virgolette, ma solo quando lo sarà pure rispetto al Sole mentre potrà essere, ad un tempo, occidentale rispetto all'orizzonte. Con ciò l'amfibologia cui si riferisce il Bezza con il suo pseudoesotico italiano, non significa affatto promiscuità - come vorrebbe la Feraboli -, bensì pluralità di significati: è il contesto che esclude senza anfibologia veruna quale valore assume la parola, così come nella nostra lingua sarà il contesto a stabilire se un 'piano' è un pianoforte, un piano geometrico, un avverbio o altro, senza il ben che minimo rischio di confusione semantica.
Simonetta Feraboli torna di nuovo anche sulla differenza semantica fra ἀνατολή ed ἐπιτολή assicurando - dopo aver parafrasato Gemino,[13] senza averlo inteso - che «nei testi astrologici viene riscontrata una continua alternanza dei termini o l'impiego di uno solo di essi, ἀνατολή, per indicare entrambi i concetti». Ora, che l'Aujac, l'editrice di Gemino, sostenga quel che la Feraboli fa suo, è vero; che le cose stiano così, no. Coloro che impiegano promiscuamente i termini, anzi - per essere più precisi - che chiamano ἐπιτολή un'ἀνατολή, Gemino li definisce ἀγνοοῦντες, ignorantes ovvero nullam artem habentes; il che, a nostro avviso, è del tutto bastevole a farci assumere un atteggiamento prudente nei casi in cui qualcuno, privo d'interessi prettamente astrologici, ravvisi promiscuità d'impiego. Si tenga presente che i due termini possono significare teoricamente lo stesso identico fenomeno che tuttavia dalle due definizioni riceve un significato astrologico diverso: ἐπιτολή sottolinea un rapporto di dipendenza del tutto estraneo ad ἀνατολή; in altre parole, mentre ἀνατολή indica un sorgere libero, autonomo e solitario, ἐπιτολή segnala un sorgere condizionato, dipendente, succubo. La differenza sotto l'aspetto astrologico è grande: μεγάλη δέ ἐστι διαφορὰ ἀνατολῆς καὶ ἐπιτολῆς, plurimum differunt inter se anatole et epitole, dice Gemino (13,3). Che anche un non astrologo sentisse tanta differenza, lo si rileva, ad es., da un luogo di Filone (op. mund. 58), laddove a proposito dei σημεῖα μελλόντων forniti dagli astri afferma che l'uomo congettura ἀνατολαῖς αὐτῶν ἢ δύσεσιν ἢ ἐκλείψεσιν ἢ πάλιν ἐπιτολαῖς ἢ ἀποκρύψεσιν κτλ. Che bisogno v'era in un contesto per nulla astrologico[14] di ricorrere a tanta precisione, se fosse stato tollerabile, come vorrebbe qualcuno, impiegare l'una voce per l'altra? Ma la Feraboli può sempre consolarsi: in fin dei conti, in un ipotetico confronto con l'onnisciente Pingree non può certo temere di sfigurare.
E veniamo, finalmente, al nuovo Tolomeo del Bezza. Il volume contiene la traduzione del primo libro del quadripartitum[15] corredata da un ampio commento che occupa 360 pp. ca.; se si pensa che le note della Feraboli all'intera opera si esauriscono in un centinaio di pagine, o poco più, ogni confronto - sotto l'aspetto dell'impegno, almeno - appare superfluo.
Dicevamo più sopra che attaccare il Bezza sui contenuti è quanto mai rischioso, poiché se, da un lato, v'è chi più di lui conosce il greco, chi può vantare una più completa preparazione classica, dall'altro nessuno possiede la sua cultura astrologica, ottenuta in decenni di ricerche su testi e manoscritti mai individuati, mai letti, mai studiati. È la passione che lo ha sempre guidato ed è con la tenacia appassionata ch'è riuscito, da solo, a scoprire che esisteva una astrologia classica, com'egli l'ha definita, o naturale, come noi preferiamo chiamarla, di cui la moderna astrologia rappresenta solo i cascami, avendone stabilito vomitevoli relazioni con la magia, i tarocchi, lo psicologismo e, nei casi migliori, il… nulla.
Detto questo, riconosciuto il giusto merito, il volume del Bezza presenta aspetti tali da sconcertare il lettore più condiscendente.
Cominciando dalla traduzione, diciamo subito che, dopo i vituperi lanciati contro la versione della Feraboli, banalizzante e vuota ma scorrevole, chiunque si troverebbe in imbarazzo ad elogiare questa che, pur essendo abbastanza corretta, è peraltro redatta in un italiano contorto, involuto, sussiegoso e spesso, sotto l'aspetto meramente linguistico, inaccettabile: per il lettore inesperto è scostante. Insomma, l'Autore scrive un po' come quei tali che parlano affettando un accento vagamente straniero, cosicché alla domanda: “Ma lei è straniero?”, possano rispondere con un sorriso compiacente e sdegnoso insieme: “Mannooo… perché?” ecc. ecc.
Unico nel suo genere è l'apparato posto a corredo della traduzione: esso riporta le versioni dei maggiori commentatori o traduttori di Tolomeo per i passaggi più significativi. La scelta non è sempre felice, ma se la traduzione fosse stata meno storta ed avesse avuto un commento linguistico esclusivo, anche succinto, questa sorta di apparatus interpretationum sarebbe risultato oltremodo utile. L'idea, comunque, ancorché mal realizzata, resta una buona idea. Facciamo giusto un esempio a caso confrontando le traduzioni dell'attacco del quarto capitoletto. Candellero: «È evidente che il Sole ha soprattutto la virtù di scaldare e di seccare». Feraboli: «Il potere attivo del Sole si manifesta nel generare caldo e, in misura minore, secco». Bezza: «Fu ravvisato esser nel Sole una qualità efficiente essenziale che riscalda e dissecca alquanto». E, già che ci siamo, Robbins: «The active power of the sun's essential nature is found to be heating and, to a certain degree, drying».[16] Infine Tolomeo: ὁ ἤλιος κατείληπται τὸ ποιητικὸν ἔχων τῆς οὐσίας ἐν τῷ θερμαίνειν καὶ ἠρέμα ξηραίνειν. Orbene, la versione curata dal Candellero è decisamente sbrigativa; per quella della Feraboli, corretta - a parte l'ἠρέμα - e chiara, si può solo pedantemente osservare che «il potere attivo» ricalca «the active power» del Robbins; dal Bezza ci aspetteremmo il meglio. E invece no! Ti offre, a bocca stretta, la peggiore: in primo luogo κατείληπται è un perfetto, non un preterito, tant'è che poco più in là, a proposito di Mercurio, Tolomeo dice καταλαμβάνεται; in secondo luogo, quell'«alquanto» fa cadere il cuore nei calzini…: sì, è vero, come avverbio equivale ad alcun poco, ma qui non serve a chiarire l'ἠρέμα ξηραίνειν del testo; del pari, «in misura minore» (Feraboli) e «to a certain degree» (Robbins) non illustrano il pensiero sotteso. Che il Sole avesse potere disseccante, lo sapeva anche l'ultimo degli analfabeti e rispetto ai tempi di Tolomeo la pratica medica sfruttava già da secoli questo dato dell'esperienza (cfr. Hipp. acut. app. 65). Ora, senza voler spiegare Tolomeo con Senofonte, nondimeno un passaggio dei memorabilia (4,3,8) ci offre il destro per utili considerazioni: Socrate, nell'elencare ad Eutidemo i benefizi di cui gli uomini vanno debitori agli dèi, chiama in causa anche l'azione del Sole che, dopo il solstizio invernale (ἐπειδὰν ἐν χειμῶνι τράπηται), torna ad avvicinarsi τὰ μὲν ἁδρύνοντα τὰ δὲ ξηραίνοντα, ὧν καιρὸς διελήλυθε, alia maturantem alia arefacientem, quorum tempus praeteriit opportunum; dunque, l'effetto di ξηραίνειν che su un medesimo oggetto sussegue a quello di ἁδρύνειν - ossia cuocere, θερμαίνειν -, viene messo in stretto rapporto ad un καιρός[17] ormai trascorso; in altre parole, l'azione primaria del Sole, quando il momento è opportuno (καιρός), è quella di riscaldare: passato il καιρός, i suoi raggi non riscaldano ulteriormente, bensì agiscono in modo diverso, perdono di vigore e disseccano. Ed è questo il significato di ἠρέμα nel passo tolemaico citato, ossia sine impetu aliquo vehementi, come del resto suggeriva già lo Stephanus (s.v.). Quindi il Sole non dissecca affatto meno di quanto riscaldi, bensì con minor vigore, insomma non è tanto coinvolto l'aspetto quantitativo, quanto piuttosto quello qualitativo.
Altro esempio che ci permette di sottolineare quanto sarebbe stato opportuno un commento esclusivamente linguistico è dato da quadr. 1,13 (1,14,2-3 Boll-Boer): «In seguito, se prendiamo le due frazioni - traduce il Bezza - e i due superparziali massimi nella musica e se applichiamo le frazioni di ½ e di 1/3 al diametro, che è costituito di due angoli retti, l'uno produrrà la figura del quadrato, l'altro, quello di 1/3, la figura dell'esagono e del trigono. Dei superparziali, se applichiamo il sesquialtero e il sesquiterzo all'intervallo di un angolo retto, il sesquialtero produrrà la figura del quadrato rispetto all'esagono, il sesquiterzo produrrà la figura del quadrato rispetto al trigono». A parte le imprecisioni, la traduzione contiene un errore presente e nel Robbins e nella Feraboli: διὰ συμφωνίας viene coralmente reso «nella musica» («in music» ovviamente il Robbins, il quale peraltro vi aggiunge un secondo e più grave errore col rendere μεγίστων «most important»). Ora, se l'ignoranza del lessico musicale ha indotto la Feraboli a seguire il capocordata (il Robbins), l'ignoranza del Bezza non è giustificabile, dal momento che nell'apparatus interpretationum, come l'abbiamo chiamato, riporta le corrette versioni del Gogava (convenientes), di Zelantone (iuxta harmonias, meno preciso per la verità) e di Roberto di Chester (convenientia), dichiarando in tal modo di non aver neppure colto il suggerimento. Infatti, διὰ συμφωνίας è una locuzione ricorrente in ambito musicale ed equivale al nostro consonante: διὰ συμφωνίας λαμβάνειν già in Aristosseno vale sumere intervallum per consonantias vel consonum (contr. διάφωνος, dissonus, dissonante). Qui, dunque, Tolomeo chiama in causa i maggiori (nel senso dell'ampiezza, non dell'importanza) μόρια ed ἐπιμόρια consonanti, in rapporto armonico. Un ulteriore passo falso il Bezza lo commette, seguendo la Feraboli, nell'eludere quel μεταξύ che sembra infastidire i due traduttori; il Robbins, invece, dimostra d'aver capito, anche se la sua resa finisce coll'apparire contorta e poco chiara. A nostro parere il testo proposto dagli editori non va, ma il senso è quanto mai evidente. Tenendo sempre presente che si sta parlando di segni e di rapporti angolari tra segni, Tolomeo afferma: sempre considerando metà zodiaco (= 6 segni o 180°), se fra i segni cerchiamo un rapporto sesquialtero (3/2) e sesquiterzio (4/3) tenendovi in mezzo un quadrato (= 3 segni o 90°), in modo che i tre segni di questo quadrato o angolo retto non coinvolgano i due segni delimitanti la metà dello zodiaco considerata (ecco perché Tolomeo dice espressamente μεταξύ), da una parte avremo due segni (= 60°) in rapporto sesquialtero con i tre dell'angolo retto che sta in mezzo, dall'altra resterà un solo segno che, sommato ai tre segni del medesimo angolo retto, contribuirà a formare un trigono (= 4 segni o 120°) in rapporto sesquiterzio con i medesimi tre segni dell'angolo retto. Tolomeo, dunque, recupera il rapporto sesquialtero considerando l'esagono (= 2 segni) esterno all'angolo retto che sta in mezzo, mentre nel rapporto sesquiterzio i quattro segni del trigono sono comprensivi dei tre dell'angolo retto mediano (se il Lettore penserà ad una mezza torta divisa in sei fette uguali, tutto diventerà più… commestibile). Tradurre come fanno la Feraboli e il Bezza: «Applichiamo ora ai 90° gradi dell'angolo retto il sesquialtero (3/2) e il sesquiterzio (4/3)» (Feraboli), «se applichiamo il sesquialtero e il sesquiterzo all'intervallo di un angolo retto» (Bezza), significa disorientare il lettore, poiché, se è vero che i 4/3 di 90° sono 120°, i 3/2 di 90° fanno 135°, il che non può stare. Nel commento la Feraboli se la sbriga citando rapidamente qualche testo a commento dei termini matematici, mentre il Bezza parte per la tangente, come si dice, e vi riversa un cumulo di notizie e notiziole, curiose tutte ed utile qualcuna, senza tuttavia saziare il lettore in attesa di sapere che cosa c'entri 1/3: vi si spiega sì che lo zodiaco rappresenta musicalmente due ottave nella concezione tolemaica e che, di conseguenza, mezzo zodiaco equivale a un'ottava (rapporto 2:1, da cui il μόριον ½); illustra pure che gli ἐπιμόρια 3/2 e 4/3 corrispondono ai rapporti di quinta (3:2) e quarta (4:3), ma il μόριον 1/3 a che cosa equivale? Ebbene lo diremo noi: i massimi intervalli consonanti o armonici all'interno di due ottave (che è già di per sé un intervallo consonante) sono la dodicesima, l'undicesima e l'ottava.[18] Tolomeo allude giocoforza alla dodicesima (rapporto 3:1, donde il μόριον 1/3), poiché il rapporto di undicesima (8:3), pur esso consonum, non può essere un morion, ossia una frazione il cui numeratore sia pari all'unità.
La traduzione del Bezza, insomma, non si distingue certo per chiarezza e precisione e può ben essere tralasciata a tutto vantaggio del commento, assai più ampio di quanto sarebbe stato necessario ad illustrare il testo che, invece, sotto l'aspetto strettamente linguistico non riceve - come abbiamo visto - adeguate attenzioni; tuttavia il materiale sovrabbondante non risulterà inutile né allo studioso né tantomeno all'astrologo. Il tutto vi appare disposto in modo meno caotico e più ordinato di quanto ci saremmo aspettati, ma con ogni verosimiglianza disegni e grafici vanno ascritti al prefatore (M. Fumagalli) il quale, oltre che accollarsi la manovalanza (digitazione, bozze, impaginazione ecc.), avrà pure suggerito soluzioni meno aggrovigliate; nel corso del volume il nome di tanto collaboratore - ripagato a quanto pare con l'onore della prefazione - non ricorre. Del resto, quello di tacere l'apporto di… terzi è un costume cui il Bezza cede volentieri: ad es., l'individuazione e la corretta valutazione dell'elemento luce quale fondamento dell'astrologia naturale non provengono da una sua intuizione; ancora, il debito - diretto o indiretto che sia - nei confronti delle dispense di A. Bausani nei compiaciuti riferimenti al mondo arabo non viene mai riconosciuto, anche se gli Appunti del noto islamista vengono citati nella 'Bibliografia moderna' (p. 431). Ma tra le scorrettezze ve ne sono anche di meno tristi: dappertutto meteorologia, meteorologi, financo nei titoli, sono letti metereologia ecc. (cfr. p. 7 r. 10; p. 31 n. 16; p. 65 r. 17; passim). A parte dubbi refusi (cfr. l'ampiano di p, 5 r. 18; l'abbrucciare di p. 60 r. 5), le rarità lessicali (cfr. il femminità di p. 96 r. 16), l'ortografia del greco e praline varie, ciò che riesce meglio al Bezza sono i gallicismi: «… consentono ad essa» (p. 14 r. 19); «le prime osservazioni astronomiche portarono sulle apparizioni…» (p. 21 rr. 35-36); «… a confrontarsi con» (p. 56/1 r. 2); «configurarsi a» (passim); «la luce è al lume quello che il calorico è al calore» (p. 63 rr. 4-5). Fa eccezione il «suscettibili di subire» di p. 82 r. 13, che invero non è un gallicismo!
Come abbiamo già più volte ripetuto, il pregio di questa fatica del Bezza sta malgrado tutto nel commento. Il capitolo ottavo - a parte le chiappole di cui sopra - è decisamente sufficiente, ben illustrato e piuttosto preciso: risulterà assai utile alla Feraboli che forse, finalmente, avrà modo di capire che cosa esattamente significhino i termini ἀνατολικός e δυτικός.
Ecco, al Bezza si deve riconoscere il merito d'essere stato il primo (alludiamo, per il passato, ai contributi sparsi qua e là, nonché ai numeri della rivista 'Schema' da lui interamente redatta) a mostrare che l'apparente semplicità del linguaggio degli astrologi greci in generale e di Tolomeo in particolare in realtà è una trappola. Le nozioni non esplicate e, quindi, date per iscontate sono molte e rispondono tutte ad una concezione ormai obliata, al cui recupero, peraltro non ancora interamente compiuto, attendono il Nostro da decenni e, dopo di lui, pochissimi altri. Il problema era già stato posto da Porfirio: ἐπειδὴ τὰ περὶ τῆς συγκρατικῆς θεωρίας τῶν οὐρανίων σωμάτων καὶ τὰ ἐξ αὐτῆς τετηρημένα τῶν ἀποτελεσμάτων εἴδη ὁλοσχερῶς ὁ Πτολεμαῖος διείληφε συνεσκιασμένην μέντοι καὶ ἀσυμφανῆ τῇ παλαιᾷ τῶν ὀνομάτων χρήσει τὴν φράσιν ἐκθέμενος, ἀναγκαῖον ᾠήθην προσιαστεῖλαι τὰ εἰς τὴν κατάληψιν αὐτῆς συντείνοντα σαφηνείας ἕνεκεν,[19] cum Ptolemaeus institutiones de corporum caelestium contemperationibus et inde effectuum formas observationibus confirmatas pertractasset, obumbratum quidem sermonem et obscurum propter nominum vetustorum usum exhibens, necessarium putavimus ad comprehensionem expediendam haec praemitti, perspicuitatis habita ratione. Ma le difficoltà non si fermano alla terminologia: al pari di un aspirante decifratore lo studioso d'astrologia brama poter confrontare e dunque abbisogna di molti testi per integrare, scegliere, scartare e alla fine, avendo capito, riproporre; purtroppo, quali che siano le modalità e le fasi di un simile processo, questo non può essere avviato qualora manchi la materia prima data dalle edizioni, che però, nonostante certo risveglio, sono pochissime, tanto da vedersi costretto a lunghe e… costose ispezioni di manoscritti di nessuna utilità, prima di reperire alcunché d'interessante. Ebbene, il Bezza ha pure il merito di aver fatto tutto ciò senza sussidi, senza strutture, senza coperture, senza protezioni, ma ricorrendo alla liberalità τῶν ἐπιτυχόντων.
Il commento ai singoli capitoli non è suddiviso secondo i soliti criteri, ma è scandito da titoletti che fungono da note a margine. In otto casi, per la gioia dei curiosi salottieri, è proposta la carta del cielo - secondo lo schema quadratum ormai desueto ma caro al nostro Neocardano - di taluni personaggi assai noti: nel commento al cap. 8, ad es., troviamo il tema celeste del cardinal C.M. Martini (p. 148) accanto a quello del famoso occultista alsaziano Stanislas marchese de Guaita (p. 149)! Non v'è capitolo che non rappresenti una sorpresa e che non risulti di una qualche utilità. Gran lavoro sono costate le tabelle delle stelle fisse (pp. 193-210) disdegnate dall'astrologia moderna, forse perché l'uomo moderno si è disabituato ad osservare la volta celeste ed ha perso ogni contatto con essa, preferendovi le bassezze di quaggiù. Eccellente, sotto l'aspetto astrologico, l'ultimo capitolo sulle applicazioni e le deflussioni. D'altro canto il quadripartitum è una tale miniera d'informazioni da ricambiare un pur fioco raggio di luce che lo rischiari con abbaglianti fasci multicolori.
Prima di chiudere, qualche parola sull'αἵρεσις, condicio (grafia da preferire a conditio), trattata alle pp. 96s. Il Bezza, dopo avere esposto - nel suo solito modo fumoso e farraginoso - tutto quel che ha trovato sull'argomento, conclude con uno specchiettino (p. 103) destinato a chi, di fronte ad un oroscopo, voglia stabilire se questo o quel pianeta sia κατὰ τὴν αἵρεσιν oppure no. Ma che cosa significa αἵρεσις? Secondo il Bezza significa «fazione»: infatti «factio indica qualcosa di più di una mera conformità dell'essere: factiosus è colui che fa insieme. Preferiamo pertanto rendere il termine αἵρεσις con fazione». Che il Nostro all'incertezza del glottologi moderni circa l'origine e, quindi, il significato del suffisso -osus preferisca la disinvolta sicurezza di Varrone, è una scelta discutibile, che l'Autore avrebbe dovuto motivare e che, comunque, potremmo trascurare; pretendere, però, che l'arricchimento semantico di un denominativo sia retroattivo, ricada cioè sulla forma nominale da cui deriva, dà la misura di come il Bezza si muova in ambito linguistico. Per l'astrologo la questione è di grande momento; infatti, a volte si incontrano temi celesti ove l'αἵρεσις dà conto di corrispondenze altrimenti incomprensibili. Il termine, che non appartiene né al lessico medico né, a rigore, a quello filosofico se non a livello, per così dire, nomenclatorio, non è facilmente afferrabile; eppure mantiene in ambito astrologico lo stesso significato che ha altrove, quello di libera scelta, libera iniziativa.[20] Il pianeta κατὰ τὴν αἵρεσιν è paragonabile per analogia ad un uomo che si trovi nella condizione di poter disporre di tutto il suo potenziale, di poter dimostrare tutto quello che sa fare, secondo i tempi e i modi ch'egli ritenga più opportuni; un pianeta παρὰ τὴν αἵρεσιν è come un uomo, anche dotato, costretto talvolta ad umiliarsi per sopravvivere, cui non viene riconosciuto il giusto merito e destinato ad accumulare con i disagi molta aggressività, che poi si riverserà negativamente sugli altri e sulla sua stessa persona. Giustamente, dunque, il Bezza non concorda con Morin, secondo cui l'αἵρεσις sarebbe un robur o una debilitas: infatti, anche se costretto e contro voglia, il pianeta παρ'αἵρεσιν non è debole, malato, ma agisce. Sbaglia, di contro, nel ritenere che siffatta condicio sia una proporzione, una similitudo (p. 98): no, è una vera e propria condicio determinata dal rapporto che il singolo pianeta intrattiene in un dato momento con uno dei due luminari. Di qui, condizionare l'αἵρεσις al moto diurno (sopra o sotto l'orizzonte), come fa il Bezza nello specchiettino sopra citato, sarebbe come subordinare le dignità dello zodiaco al moto diurno. L'essere sopra o sotto l'orizzonte o in alcuni segni piuttosto che in altri migliora o peggiora ulteriormente la condicio nello specifico senso del χαίρειν usato da Vettio Valente laddove dice che i pianeti diurni ὑπέργειοι χαίρουσι ( 141,17 Kroll),[21] ma la condicio resta la medesima, non cambia; per riprendere l'analogia, la mancanza di libera iniziativa sarà meno greve, ma costituirà pur sempre un ostacolo insormontabile. In verità, malgrado l'ostentata sicurezza, il Bezza non sembra intimamente convinto della soluzione che propone. Un corretto suggerimento lo fornisce Porfirio: dopo aver suddiviso gli astri in diurni e notturni, conclude definendo Mercurio ἐπίκοινος, ᾧ γὰρ ἂν σχήματι - continua - παρατυγχάνει, τούτῳ  οἰκειοῦται, ἑῷος μὲν τῷ Ἡλίῳ, τῇ δὲ Σελήνῃ ἑσπέριος, in utram enim configurationem incidat, ei se devincit, matutinus quidem Soli, Lunae vero vespertinus. Non si considera, dunque, l'orizzonte, bensì la fase. Ma pure il liber Hermetis ci soccorre: in tractatu de parentibus primum oportet te inspicere a Sole et Luna, si associantur a planetis propriae condicionis, veluti in diurna et nocturna nativitate, si Saturnus et Jupiter Solem associaverint familiariter in eodem signo vel in anteriori et oriantur ante Solem eoi cum Mercurio, qui communis, Mars vero et Venus, qui non sunt de praedicta condicione, oriantur post Solem, dicimus quod pater est regius, quia hi qui sunt eiusdem condicionis cum Sole, associaverunt eum anterius, hi vero, qui non sunt eiusdem condicionis, posterius. Infatti è rarissimo trovare natività ove tutti i pianeti si trovino κατὰ τὴν αἵρεσιν, donde l'eccezionalità del giudizio. Proseguendo, in Luna vero contrarium, quod hi qui sunt suae condicionis, videlicet Mars, Venus et Mercurius, sint hesperei orientales et oriantur post Lunam eam associantes. Alii vero qui non sunt suae condicionis, scilicet Saturnus et Jupiter, si sint eoi orientales et ante Lunam, dicimus quod mater est regina (20 [46,24 Gundel]). Il Lettore non tralasci di rilevare l'inciso veluti in diurna et nocturna nativitate; non vi è altro da aggiungere, essendo tutto di un'evidenza palmare.
Chiudono il volume un'interessante appendice sulla sorte della Luna, utile peraltro ai soli astrologi, e gl'indici.[22]
Sine ira et studio e senza (...) «accidia».[23]

NOTE
[1] Giuseppe Bezza, Commento al primo libro della Tetrabiblos di Claudio Tolomeo con una nuova traduzione e le interpretazioni dei maggiori commentatori, Nuovi Orizzonti, Milano 1990, pp. XXXIV-452, Lire 45.000.
[2] Claudio Tolomeo, Tetrabiblos o i quattro libri delle predizioni astrologiche, a cura di Massimo Candellero, Carmagnola 1979; Claudio Tolomeo, Le previsioni astrologiche (tetrabiblos), a cura di Simonetta Feraboli, Milano 1985.
[3] Nessuna delle tre, invero, è una buona traduzione, se con questo termine si vuole intendere quella fatica cui il traduttore si accinge per far comprendere un testo ch'egli stesso in tutta onestà sa di poter affrontare.
[4] Gottingae 1986-1989.
[5] The Astronomical Works of Gregory Chioniades I. The Zij al-'Ala'i, Part I: Text, Translation, Commentary by David Pingree, Amsterdam 1985.
[6] Fra parentesi quadre abbiamo posto, segnalandole, le integrazioni necessarie a rendere accettabile e comprensibile la nostra resa, diversa in realtà da quella offerta dal Pingree, fautore peraltro di un pedestre procedere ad verbum secondo un riprovevole metodo che è andato purtroppo diffondendosi anche fra gl'insegnanti delle nostre scuole.
[7] Questa, a tutta prima, costituisce forse una delle ragioni, ancorché inconsistente, che possono avere indotto il Pingree in errore, ma non è sicuro che le cose stiano così.
[8] Ad esempio, proprio il Pingree (op. cit. p. 22) afferma: «With regard to the tables, I have attempted to treat them as historical documents rather than to “correct” them».
[9] Simonetta Feraboli, Precisazioni a una recensione, in 'Paideia' 42 (1987) pp. 246-248.
[10] Fr. Al. Illiceramius, G. Bezza, Il problema di un recupero dell'astrologia classica nella lettura di una nuova edizione di Tolomeo, in 'Paideia' 41 (1986) pp. 215-236.
[11] Evidentemente la Feraboli non concepisce che competenza e preparazione si «approntino» se non in funzione di una recensione!
[12] Se Stephanus è «anonimo» rispetto ad Estienne, allora forse è vero: abbiamo preferito l'anonimato. Resta però, poi, da considerare che differenza avrebbe fatto utilizzare la forma non latinizzata del nostro cognome, essendo pur essa del tutto anonima!
[13] Paris 1975, p. 68 n. 1 (una buona edizione, comunque, decisamente ben fatta).
[14] Per carità, lungi da Filone l'astrologia! Lo assicura R. Arnaldez a p. 178 n. 1 della sua edizione (Paris 1961): «Il s'agit de météorologie, non d'astrologie ou de magie». Come se i principi di previsione meteorologica fossero stati “scientifici” o diversi da quelli su cui si fonda l'intera astrologia, di cui peraltro la meteorologia costituisce una branca!
[15] Chissà perché «della» Tetrabiblos. L'aggettivo sostantivato in latino è neutro e in italiano va al maschile:diremo, dunque, “sintassi quadripartita”, giammai la “quadripartita”, non diversamente dai Latini. Quindi il Tetrabiblon (a rigore, piuttosto che il Tetrabiblos, come scrive la Feraboli), non la Tetrabiblos.
[16] London 1940, p. 35.
[17] Non diremo una sola parola sul concetto di καιρός, poiché se per un attimo indugiassimo sprofonderemmo in un mare magnum da cui riusciremmo ad uscire solo dopo aver nuotato per diecine e diecine di pagine, col fiatone.
[18] Cfr. Eucl. sectio can. pr. 12 (159 Jan); Cleon. is. 8 (194 Jan).
[19] CCAG V/IV 190.
[20] Così anche in Plb. 1,20,11 - e non solo qui -, ove alcuni traduttori e commentatori suggeriscono a torto «impresa».
[21] Il capitoletto di Vettio Valente περὶ αἱρέσεως τῶν ἀστέρων ha tutta l'aria d'uno stralcio. La pazzesca edizione del Pingree (Leipzig 1986) non porta lumi.
[22] Quello greco è poco scrupoloso: ad es., alla voce καθυπερτέρησις si rimanda alla p. 238, mentre il termine è oggetto di trattazione alle pp. 270s.
[23] Ovviamente, non nel senso che questa parola ha in italiano, bensì in quello attribuitole dal Bezza alla nota 124 in fondo (p. 168) ove, rimproverando al Morin una «singolare asserzione», conclude: «Quanta accidia in quelle pagine!». Ecco, in quel senso!