“Interessanti” notizie riguardanti l'opuscolo intitolato de indolentia ed attribuito a Galeno.

Era nostra intenzione pubblicare sufficienti osservazioni linguistiche al testo di questo trattatello che si presume scritto da Galeno, ma, non essendo certi di poterlo fare in tempi ragionevoli, ci siamo risolti ad offrire al nostro Lettore le informazioni che seguono.

A beneficio di chi non ne è a conoscenza, diremo che il de indolentia è uno scritto che è stato scoperto nel 2005 da Antoine Pietrobelli in un manoscritto conservato presso il Monastero dei Vlatades di Salonicco e denominato Thessalonicensis Vlatadon 14. Dopo la notizia, studiosi di tutto il mondo si sono avventati a questo scrittarello come fiere fameliche. Il titolo latino attribuitogli è dovuto a un non latinista, giacché indolentia è un neologismo coniato da Cicerone per significare la privatio/detractio/vacuitas doloris, l'insensibilità al dolore, l'ἀναλγησία, in senso fisico. Sarebbe stato preferibile, semmai, un de remota aegritudine. Ma non è questa la notizia “interessante”.
Nell'edizione critica curata da Véronique Boudon-Millot e Jacques Jouanna con la collaborazione di Antoine Pietrobelli (Paris, Les Belles Lettres, 2010) leggiamo a proposito del titolo, p. 27: [*]

Il titolo nel Vlatadon, sia esso il titolo iniziale (Περὶ ἀλυγισίας) o finale (Περὶ ἀλογισίας) è sbagliato. La restituzione del titolo nell'ed. princeps (Περὶ ἀλυπίας) deriva dal fatto che Galeno stesso menziona il trattato in De libris propriis, c. 15, ove lo classifica tra le opere che ha redatto sulla «filosofia etica» (Boudon-Millot 169,13s. τῆς ἠθικῆς φιλοσοφίας). Orbene, egli lo cita così: Περὶ ἀλυπίας ἕν «Del non crucciarsi, un volume» (ibid. 169,17). […] L'errore del Vlatadon nel titolo è forse di malaugurio per la qualità della copia e la comprensione dello scriba? Si può dubitare che il copista comprendesse tutto ciò che ricopiava. Né la parola ἀλυγισία né la parola ἀλογισία esistono; la forma ἀλογισία è vicina ad ἀλογιστία «l'assenza di riflessione, l'irriflessione» che in effetti è attestata per Galeno nel De placitis Hippocratis et Platonis […]. Ma questo non è l'argomento del trattato. La fonte dell'errore è probabilmente una confusione di maiuscole Π/ΓΙ. Ciò è confermato dall'uso della parola all'interno del trattato al § 69,21,12, dove Galeno dice che pensa di aver risposto alla domanda che il suo interlocutore gli aveva posto sull'«assenza di cruccio». Il manoscritto dà περὶ ἀλυπεισίας. Più oltre la parola ritorna al § 79b,24 sotto la forma di ἀλυπισίαν. Queste due forme sono un equivalente di ciò che è dato nel titolo senza l'errore di lettura di maiuscole. Ma ciò che è notevole è la costanza nelle quattro forme d'una finale in -εισία vel -ισία (con occasionali errori d'iotacismo). Di qui, pare poco verisimile che la parola originale nella tradizione del Vlatadon sia la parola corta ἀλυπία. Sotto l'errore si nasconde una parola più lunga che è il termine non attestato altrove di *ἀλυπησία. Mentre ἀλυπία significa «l'assenza di cruccio», ἀλυπησία ha un senso più attivo: è «l'azione di non crucciarsi».

Prima di procedere occorre qualche precisazione. Vediamo le quattro ricorrenze, così come appaiono nel Vlatadon:
1. ; 2. ; 3. ; 4. . Per il n. 1 in apparato (p. 2) leggiamo: ἀλυγισίας Vlat; per il n. 4 (p. 26): ἀλογισίας Vlat. Ma come si può ben rilevare, queste informazioni sono scorrette, poiché in entrambi i casi manca lo spirito dolce e la desinenza è in abbreviazione: in apparato avrebbero rispettivamente dovuto scrivere αλυγισί(ας) e αλογισί(ας) (nel n. 4, scritto da un diverso scriba, a nostro parere, la lettura di ο in luogo di υ non è certa). Quanto al n. 2, in cui Jouanna legge il dittongo ει, a noi pare identico al n. 3, cioè non sembra esservi un dittongo: sì, lo ι è scritto male e molto vicino a π, ma non riusciamo a vedervi il dittongo ει : occorrerebbe esaminare direttamente il manoscritto con l'aiuto di una lente. Comunque sia, non vi sono difficoltà che impediscano di affermare che il codice nel titolo e nel τέλος ha ἀλυγισία, mentre all'interno ha ἀλυπισία (← ἀλυπησία per iotacismo). Ora possiamo procedere.
Il Lettore ha ben letto? Jouanna afferma che la parola ἀλυγισία non esiste e che il termine ἀλυπησία non è attestato altrove.
E qui cominciano le notizie interessanti. Prendiamo in mano lo splendido dizionario di Ἰωάννης Σταματάκος (Ioannis Stamatakos), Λεξικὸν τῆς νέας ἑλληνικῆς γλώσσης, Ἀθῆναι (Ὁ Φοῖνιξ) 1952, vol. I, e cerchiamo l'inesistente termine ἀλυγισία. A p. 185 leggiamo: ἀ-λυγισία, ἡ (καὶ δημ. ἀλυγισιά)· ἡ ἀκαμψία, δυσκαμψία.—ἀντ. εὐλυγισία, εὐκαμψία, ἐλαστικότης ∥ μτφρ. ἀδιαλλαξία, πεῖσμα, ξεροκεφαλιά.—ἀντ. διαλακτικότης, συμβιβαστικότης, κλπ. Quindi la parola esiste e significa in senso proprio inflessibilità, saldezza, in senso fig. irreconciliabilità, ostinazione. Il vocabolo è presente anche nel più recente Λεξικό[1] (Atene 1995) di Ἐμμανουὴλ Κριαρᾶς (Emmauil Kriaras), p. 61: αλυγισία και (συνιζ.) -ιά η, ουσ. 1. το να είναι κάποιος αλύγιστος (συνων. ακαμψία, δυσκαμψία· αντ. ευλυγισία). 2. (μεταφ.) το να είναι κάποιος σκληρός (συνων. σκληρότητα, απονιά). Anche qui il termine è spiegato con (1.) l'essere inflessibile e (2.) l'essere duro/crudele.
Questo sarebbe il vocabolo che non esiste. Di qui, possiamo pacificamente asserire che nell'ἀλυγισία di Vlat non vi è alcuna confusione di maiuscole; che le due coppie di vocaboli non sono affatto equivalenti; e che il legittimo titolo testimoniato dal codice è Περὶ ἀλυγισίας!
Passiamo ad ἀλυπησία, che secondo quanto abbiamo appena letto, è un termine non attestato. L'affermazione è falsa, poiché il termine si trova attestato al v. 191 del carme τὸ θανατικὸν τῆς Ῥόδου (la peste di Rodi) di Ἐμμανουὴλ Γεωργηλᾶς, pubblicato in Carmina Graeca Medii Aevi, edidit Guilelmus Wagner, Lipsiae (Teubner) 1874, p. 38. Ovviamente, i cattedratici che si sono occupati di quest'opera, si accodano, cf. ad es. Galeno, Nuovi scritti autobiografici, Intr. trad. e comm. di M. Vegetti, Roma [Carocci] 2013, p. 257: «(ἀλυπησία) costituisce un lemma inesistente nella lingua greca». Non diversamente si comporta Kai Brodersen nel suo volumetto Galenos. Die verbrannte Bibliothek, Wiesbaden (MarixVerlag) 2015, il quale scrive il titolo nel modo seguente: Περὶ ἀλυπ[ησ]ίας. Non solo: il termine è ancora vivo nel greco moderno con l'accento spostato sull'ultima (per sinizesi): cf. Ἰ. Σταματάκος, Λεξικὸν cit., p. 186 s.v.: ἀ-λυπησιά, ἡ, δημ.· τὸ νὰ μὴ λυπῆταί τις, νὰ μὴ συμπονῇ, ἀναλγησία, ἀσυγκινησία, ἀπονιά, ἀναισθησία, κλπ. Né si tratta del vezzo di un lessicografo tradizionalista come Stamatakos, poiché il termine è ripreso anche nel già citato dizionario del Kriaras, p. 61: αλυπησιά η, ουσ (συνιζ.), το να συμπεριφέρεται κανείς χωρίς ευσπλαγχνία, χωρίς λύπηση: φέρθηκε μ΄~ στο θυμό του (συνών. ασπλαγχνία, σκληρότητα). Evidentemente gli editori francesi si sono incautamente fidati del Thesaurus californiano. Questa non è una colpa, così come essi non sono certo colpevoli di non aver letto La peste di Rodi ! Ciò che, invece, è grave è che il termine è presente come lemma nel più importante lessico del citato Kriaras, il Λεξικὸ τῆς μεσαιωνικῆς ἑλληνικῆς δημώδους γραμματείας 1100-1669, Τόμος Α', Θεσσαλονίκη 1968, p. 238, ove il significato di ἀλυπησία – spiegato con ἀσπλαγχνία senza pietà e σκληρότητα durezza – è più vicino ad ἀλυγισία che non ad ἀλυπία.
Insomma, gli editori non si sono presi la briga di consultare un semplice vocabolario! Uno studente che avesse commesso la stessa leggerezza sarebbe stato insultato per negligenza ed umiliato dai suoi professori cattedratici.[2]


Nel nostro titolo abbiamo messo “interessante” tra virgolette perché, quando l'anno scorso informammo una cattedratica di quest'incredibile incidente riguardante ἀλυπησία, la reazione di costei fu: «Interessante!». Ci dovemmo trattenere dal rispondere a parole quel che Galeno vuol significare con il suo gesto nell'immagine qui sopra. Non siamo certo noi a dover raccontare della spocchia, della supponenza e dell'ignoranza dei titolari di cattedra (anche se qualche eccezione c'è). Del resto è ormai assodato che la laurea – non solo in Italia – è il titolo che assicura e garantisce il raggiunto grado d'ignoranza indispensabile per ottenere il successo sociale.


Comunque, vogliamo informare il nostro Lettore, che la redazione di questo de indolentia non è di Galeno: gli indizi non mancano. A parte il fatto che ora il testo del Vlatadon si trova soffocato sotto una spessa coltre di congetture, ci limiteremo a qualche osservazione.
La prima riguarda la logica: Galeno citerebbe due volte gli stessi versi di Euripide al § 52 e al § 77. È pur vero che lo stesso Galeno cita i medesimi versi in De placitis Hippocratis et Platonis (già citati da Cicerone, cf. Tusc. 3,29, non 3,32, come qualcuno scrive), ma ritenere che in un trattatello relativamente breve Galeno ripeta la medesima citazione di 6 versi, significa qualificarlo un imbecille, incapace di distribuire la materia di cui tratta. Vi fosse un accenno alla ripetizione, come al § 22 (ὡς ἔφην), potremmo ancora, pur contro ogni buon senso, accettarlo, ma così no! Galeno non era un imbecille, tanto meno un incapace.
Quanto alla lingua valga il succinto campionario che segue:
— l'incipit offre la prima difficoltà: ἔλαβόν σου τὴν ἐπιστολήν. Questa formula comparirà nel sec. IV in Basilio e sarà frequente in Libanio. I rarissimi casi in cui λαμβάνω è riferito ad ἐπιστολήν prima del sec. IV, è (a parte forse due o tre casi) al participio aoristo e determina la condizione del verbo principale. Occorre peraltro precisare che σου sta per παρά σου: non è un possessivo, ma un genitivo d'origine;
— al § 39 leggiamo οὐκ ἀρκούμενος διαίτῃ εὐτελεῖ, ma ἀρκούμενος non è mai connesso al regime alimentare e l'aggettivo non viene mai usato come attributo di δίαιτα;
— al § 46 leggiamo πολὺ πλέω τῶν ἱκανῶν: a parte la forma πλέω, cui Galeno sembra preferire sempre πλείω, si tratta di un'espressione relativamente rara che in Galeno non s'incontra mai;
— al § 54 – e qui casca l'asino – troviamo la locuzione παρ΄ ὅλον τὸν χρόνον, che si trova una volta in Origene, quindi diverrà più frequente qualche secolo dopo Galeno, quando ὅλος avrà perduto il suo proprio significato di tutto intiero, completo, poco adatto come attributo di χρόνος. Galeno infatti usa sempre la forma classica παρὰ πάντα τὸν χρόνον, che è già in Isocrate.
Altre espressioni sollevano non poche perplessità:
— al § 14 leggiamo ἐν μέσῳ βιβλίων. Quest'espressione si incontra una sola volta in Libanio (di nuovo Libanio, sec. IV!) ed ha tutta l'aria di essere una forma artificiosamente purgata di quella in uso nella lingua parlata, cioè μέσα στὰ (=΄ς τὰ) βιβλία dentro i/all'interno dei libri. Se questa nostra ipotesi fosse provata, la redazione di questo trattatello verrebbe scagliata molti secoli dopo Galeno.

Quanto sopra basta affinché uno studente volenteroso trovi lo stimolo per dedicarsi ad una ricerca che gli permetterà di scoprire quante impurità di stile e di sintassi, decisamente non attribuibili a Galeno, questo trattatello pseudo-galenico offre. Non vogliamo escludere che l'anonimo redattore abbia utilizzato materiale proveniente da scritti di Galeno, ma questo non è il περὶ ἀλυπίας di Galeno, ma il περὶ ἀλυγισίας di un anonimo imbroglioncello, uno dei tanti che già, ancora vivente il grande medico, si appropriavano impunemente i suoi scritti e il suo nome.



NOTE.

[*] Purtroppo non siamo riusciti a procurarci l'edizione critica pubblicata su “Hellenika” (60) 2010, a cura di due studiosi greci. [Per caso, il 31 gennaio abbiamo trovato su Internet l’edizione gratuita dei due studiosi greci, Παρασκευή Κοτζιά-Παντελή (Paraskeví Kotziá-Pandelí) e Παναγιώτης Σωτηρούδης (Panaghiótis Sotirúdis), pubblicata da detta rivista, pp. 63÷150, completa di traduzione e commento. Un’occhiata qua e là ha permesso di rilevare che essa promette di essere non meno interessante dell’edizione di Jouanna, anche se gli studiosi greci hanno ricevuto dal Monastero dei Vlatadon un trattamento di favore.]

[1] Questo dizionario adotta ovviamente le devastanti “riforme” ortografiche che hanno impunemente ed esizialmente diseredato le generazioni nate dopo il 1976, riforme che stanno distruggendo le radici di un glorioso popolo, come è ben dimostrato dall'attuale condizione della Grecia. Una nazione che distrugge la propria lingua, distrugge la propria identità, misconosce i propri antenati e si vota al suicidio. E tutto questo disastro grazie ad un manipolo di sicofanti invidiosi e bramosi di potere politico e di denaro. Nemmeno i Turchi riuscirono a compiere una tale devastazione.

[2] La nostra non è un'ipotesi assurda, poiché questo fatto accadde a noi molti decenni fa. All'università durante un esame scritto commettemmo la leggerezza di non controllare un vocabolo nel dizionario e, per un insondabile motivo, traducemmo “bere” anziché sudare”. Ovviamente non superammo la prova, ma il professore (allora era Dario Del Corno, un radical-chic rigonfio di malcelata superbia) non si contentò di dare un voto negativo, ma ci mandò a chiamare e, citando l'errore, ci derise e ci umiliò in ogni modo possibile. Tuttavia ci rese un servigio, perché comprendemmo che quella cloaca universitaria non era un luogo adatto all'apprendimento di checchessia. Quanto al valore dello studioso, arido e preparatissimo, esso è ben manifesto nelle sue scombinate traduzioni di Aristofane, a tacer d'altro.


[2017 © Franco Luigi Viero]